A MIO PADRE

A MIO PADRE

 

Sono nato a Roma, nel quartiere di San Lorenzo. Anche mio padre è nato a San Lorenzo. Mio nonno no: non avrebbe potuto. Quando lui è nato San Lorenzo non era ancora stato costruito. San Lorenzo “fora le muralo chiamavano gli altri romani, quasi con disprezzo. Come a voler indicare che l’essere nati a sole poche centinaia di metri fuori dalle mura della città ti debba far sentire un po’ meno romano.

Non so molto di mio nonno: non l’ho conosciuto. Quando lui è morto, non ero ancora nato. Quel poco che so l’ho appreso attraverso i racconti di mio padre. Buon raccontatore mio padre: conosco perfettamente tutte le sue peripezie durante la guerra. Un anno e mezzo di prigionia s’è fatto. Dall’Albania all’Austria a piedi: e tutto per colpa dell’ottusa imbecillità di un comandante italiano. Il ricordo di quello che ha passato se l’è portato dietro per anni, nei suoi incubi notturni.

Buon raccontatore, dicevo, mio padre. Ma quando si trattava di parlare della sua famiglia si chiudeva in uno strano silenzio che non sono mai riuscito a spiegarmi. Vergogna? Può darsi. Vergogna per quel suo padre così ingombrante, così diverso da lui, mite e bonario. Mio nonno era un commerciante importante. Per quel che ne so io, possedeva tra macellerie ed osterie, almeno tre o quattro botteghe nel quartiere. Una di sicuro in via degli Equi. Un’altra in via dei Marrucini, quasi ad angolo con via Tiburtina. Me le indicava ogni volta mio padre quando passavamo di là. Anche fisicamente non si somigliavano molto. Mio nonno era un “omone”, così almeno me lo descriveva lui: dotato di una forza spaventosa. Aveva conosciuto Mussolini; erano stati amici: quando, s’intende, Mussolini era ancora socialista. So di un suo fratello, di cui adesso mi sfugge il nome, morto, pensate un po’, per essere caduto da cassetta mentre, ubriaco, era alle redini di uno dei quei carri enormi adibiti al trasporto in città. I cavalli di Gondrand, li chiamavano allora quei possenti bestioni in grado di trainare qualunque cosa. Un altro fratello di mio nonno fece una fine anche peggiore. Incaricato da un amico, richiamato al fronte, di badare alla sua fidanzata, fu accoltellato alle spalle da un tizio, un gobbo pare, che voleva insidiarla: morì sul colpo. Il Codice d’Onore della “nullaggine” romana imponeva anche di questi sacrifici. Mia nonna invece l’ho conosciuta. Il ricordo che ho di lei è una donna avanti cogli anni, austera, severa e cieca. Si, mia nonna era cieca, così almeno la ricordo io. Da giovane era stata una donna molto bella. Ricordo d’aver visto delle vecchie foto. Una bella donna con una massa enorme di capelli neri corvini pettinati a crocchia. Li portavano così una volta i capelli le donne:  a crocchia, tenuti su da uno spillone di metallo. Ma non crediate che lo spillone servisse solo a quello: macché. Lo sapevano bene le belle “fardone” di allora. Usato come uno stiletto, diventava una terribile arma di difesa. Mio padre mi raccontò che una volta la nonna se ne servì. Nel buio di un cinema (ma ci pensate al cinema dell’epoca? Stiamo parlando degli anni ’20) qualcuno provò a farle la mano morta e lei non esitò a conficcarglielo in pieno petto.

Mio nonno di persone ne ha uccise due. No, non sto scherzando. È imbarazzante, ma è andata proprio così. Non ne so molto. Mio padre ha sempre avuto un comprensibile riserbo a parlarmi di questi episodi. L’ha fatto soltanto quando io ero già abbastanza grande e lui abbastanza vecchio per togliersi dall’anima quel peso che gli premeva addosso da quando era ancora un ragazzo. La prima “questione” avvenne nel negozio di macelleria. Sembra che la vittima sia stato un infermiere del vicino Policlinico, colpevole di aver messo gli occhi su mia nonna. Fu trovato appeso ad uno dei ganci dove normalmente vengono messi i quarti di carne in attesa di essere disossati. Mio padre era presente e, sebbene nascosto sotto il bancone di marmo, vide tutto.

Il secondo era una guardia papalina in servizio nei pressi di Castel Sant’angelo. Mio nonno si recava a Borgo per consegnare il vino. Le guardie fermarono il calesse e subito iniziarono a fare gli spiritosi lanciando pesanti commenti all’indirizzo di mia nonna che quel giorno lo accompagnava.

Lui prima si fece largo con la frusta, poi, quando uno delle guardie gli venne a tiro, lo sollevò come un fuscello e lo scaraventò a Tevere. Il poveraccio morì annegato. Mio nonno riuscì a fuggire aiutato dagli amici di Borgo.

Quello che non ho mai capito è come sia riuscito a farla franca tutt’e due le volte. Che sappia io, non ha mai scontato un solo giorno di galera. Altri tempi!

Non mi capita spesso di tornare a San Lorenzo. Non mi ci ritrovo più: mi mancano i punti di riferimento. Non c’è più “er Cupellaro”, a Largo degli Osci, l’osteria dove si andava a comprare il vino dei castelli, “Sammartino”, quello che “faceva la pizza bbona”, non c’è più lo “scarparo”, dove si compravano i pennini per la scuola, ma anche i “bruscolini e i mostaccioli”, non c’è più il cinema Palazzo (80 lire, due film, di cui uno di Tarzan), i cavalli allo Scalo, la sora Colomba a via Campani e, soprattutto, non c’è più mio padre a cui vorrei chiedere ancora tante cose.


CLAUDIO D'AMICO 

 

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