ER TINEA

ER TINEA L’ULTIMO DEI BULLI

“Er Tinea” trae spunto da fatti e personaggi realmente esistiti. Ma come spesso accade, la penna dell’autore va per proprio conto e dei fatti e dei personaggi reali, alla fine, resta ben poco.

Er Tinea, quello vero, si chiamava in realtà Romeo Ottaviani ed è stato per oltre un decennio un temibile capopopolo, Più del più, il re incontrastato della “nullaggine” romana.

Personaggio controverso, per alcuni un eroe capace di fare del bene alla povera gente. Per altri un violento, un prepotente; ma Romeo, bullo, lo divenne per caso.

Una sera , siamo nel 1898, tornando a casa dal lavoro (faceva il postino a Piazza San Silvestro), s’imbatte in un “magnaccia” che sta picchiando a sangue la sua protetta. Con una imprevedibile presenza di spirito, seguendo l’istinto di giustizia del vero romano, Romeo interviene in difesa della donna e, nonostante l’avversario estragga il coltello, riesce ad avere la meglio su di lui e a metterlo in fuga. La notizia si sparge e quando si viene a sapere che quel “Pappa” è nientedimeno che “er Malandrinone”, un temibile capobanda, Romeo assurge ad una fulminea notorietà guadagnandosi in poco tempo l’appellativo di Tinea: contrazione storpiata di “sangue d’Enea” (d’Inea), erede di quella stirpe troiana da cui i romani si vantano di discendere, perciò eroe romano puro. Sconosciuto a molti, di questo personaggio si sono occupate più le cronache dell’epoca che non la storiografia ufficiale. Dotato di una forza erculea, per quanto stupefacente possa sembrare, in una città in cui le lame lampeggiano sinistramente quasi ogni sera all’ombra di strade e vicoli, Romeo non è un uomo di coltello e pur essendo uomo d’onore e uomo di vita, in luogo del “tajno”, brandisce i pugni. Questo fa aumentare ancor di più la sua fama.

La sua casa in Piazza Renzi diventa così un improvviso ufficio reclami dove presentano le loro istanze i deboli, gli oppressi i perseguitati, vittime di soprusi, d’ingiustizie, persino i negozianti tartassati dagli usurai. Lui fa da paciere, sana le questioni. La cronaca cittadina, quella nera s’intende, ha narrato spesso fatti e misfatti di questo signore – ne ha mandati pochi al cimitero! – ma lo stesso Ripandelli, delegato di PS di Trastevere, in fondo lo ha rispettato, non fosse altro perché gli evitò tante grane.

Quest’uomo, a modo suo d’ordine, si procurò così non pochi avversari, specie tra le file della malavita. I protettori, i ladri, non meno dei prepotenti e degli scrocconi, videro in lui un ostacolo alla loro vita di parassiti e farabutti, lo consideravano un nemico giurato, sparsero la voce che fosse un confidente della Polizia cui faceva le “soffiate”; nel giro di pochi anni adoprarono tutta la loro esperienza criminale, la loro furbizia malandrina con l’unico fine di farlo fuori.

La peggior teppa dei rioni romani decise di eliminare Romeo che muore il 4 aprile 1910 a soli 33 anni, colpito a tradimento dal Sartoretto, un gobbo, reso pazzo dalla gelosia per la bella Assunta, la moglie del Tinea, forse divenuto uno strumento nelle mani dei nemici di Romeo.

Il messaggero dedicò ampio spazio ai suoi funerali a quali partecipò tutto il fior fiore, se così si può definire, della malavita romana. Lutto completo a Trastevere. Ogni attività cessò nel popoloso rione. I negozi furono chiusi, persino i caffè e l’osterie. Questo il sonetto composto in sua memoria da Pietro Masotti, un vetturino suo amico:

 

“A che serve da esse un nominato,

da sapé a perfezzione maneggià er cortello,

se er boia destino t’ha creato

pè finì come carne da macello?

Quanti n’hai puncicati, t’aricordi?

So’ ricorsi da Paciucci e Pantalone*,

se li riconoscevi che erano balordi

quanno che ci avevi d’appianà quarche questione.

Tremavano li serci quanno camminavi

Cor tu’ personale che metteva paura;

bastava sortanto che tu li guardavi

per sfuggirti come fossi stato ‘na jattura.

Ora sei morto: tutto sarà scordato

E pe’ li bulli sarà na gran vergogna,

quanno diranno che t’ha ammazzato

Bastiano Picchione*, ‘na carogna!

 

Questa la storia. Ma prima che puristi e conoscitori di cose romane insorgano contro l’autore, è bene precisare che lo scopo di questo lavoro non è quello di riproporre per immagini una fedele narrazione di questi accadimenti – il nostro Tinea somiglia così poco in quello reale – bensì il desiderio di tratteggiare uno spaccato, questo si il più fedele possibile, di una Roma quella dei primi del ‘900, povera e popolare, lontana e dimenticata, della quale ci sono rimaste solo poche confuse testimonianze affidate per lo più alla memoria di chi queste vicende ha realmente vissuto.

La nostra vicenda diventa così assai meno cruenta, lasciando qua e là spazio ai sentimenti, al sarcasmo e all’ironia; doti peculiari di noi romani. “Storia d’amore e di coltello” dunque, non senza precisi riferimenti culturali, con la riproposta di usi e tradizioni, come “la cicciatina”, da tempo scomparsi.

Ma soprattutto si vuole rivisitare la figura del bullo quale eroe popolare: il bullo “omo d’onore”, soccorritore dei deboli, difensore, come i cavalieri antichi, delle donne, che rispetta e fa rispettare. Nel rione è un’autorità “a latere” della polizia. E tutto senza secondi finì né a scopo di lucro, disinteressato, senza riscuotere tangenti per la sua protezione.

Si evidenzia così la differenza tra bullo e “paìno”, essendo quest’ultimo alleato dei “pappa” e della malavita. I paìni non sono uomini d’onore, non sono amici della legge e perciò nemici acerrimi dei bulli. Sì, il bullo è prepotente, spaccone ma “de core”, un dritto, la cui parola è sacra, costi quel che costi, mantenere la parola data è un imperativo categorico, guai!, perderebbe la faccia in tutto il rione. È un uomo di fegato che non si abbassa ad azioni disonorevoli, non ruba, lavora sodo e onestamente. Il “paìno” invece, o “perdegiorno”, è un elegantone vanesio, un gagà, un damerino in ghingheri che ha i soldi, ma non si sa come li guadagna. Il bullo non sente però nessun complesso di inferiorità nei confronti del bellimbusto più danaroso, anzi lo disprezza come un uomo di seconda categoria, bersagliandolo con i suoi frizzi e lazzi, prendendolo in giro con la sua ricercatezza. Anche nella scelta del linguaggio, romanesco e non romanesco, si è voluto riproporre quell’atmosfera di suoni e modi di dire dei romani di allora, espressioni che non sono quelle rozze e volgari di alcuni personaggi di oggi, i quali spacciano per romano e romanesco quello che non ha niente a che fare con le nostre tradizioni.

 

 

* Paciucci e Pantalone erano due medici famosi tra i malavitosi, chirurghi dell’ospedale della Consolazione, dove venivano portati a “ricucire” i feriti da duelli; Bastiano Picchione era il nome vero del Sartoretto detto così per il suo mestiere di sarto.

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